your heart is pure,
and your mind is dear.



30.4.20

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riviera t.

ultimo giorno di aprile

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la prima cosa bella

di giovedì 30 aprile

La prima cosa bella di giovedì 30 aprile 2020 sono le ninfee di Monet, chiuse in una cassa, dentro un caveau, in un antico palazzo di Bologna. Sepolte. Eppure mai più belle di così. Le tele sono arrivate dalla Francia per una mostra che doveva aprirsi a marzo ma non è iniziata mai e ora è rinviata a data da destinarsi. 
I conti vietano il via a metà maggio: farlo costerebbe cinque volte i ricavi dei biglietti. E le frontiere chiuse impediscono di rispedire le opere al mittente. 
Le ninfee restano lì, recluse nell’oscurità di un futuro incerto, un po’ come noi tutti. Monet ne ha dipinte circa 250: colori diversi, diverse pennellate e soprattutto diversa luce. Con il tempo le forme si sono rarefatte, quasi svanite. Non dipingeva più le ninfee, ma l’idea delle ninfee. Stava, semplicemente, tornando indietro, all’origine delle cose. Questo dovete pensare. La bellezza non è chiusa a chiave dentro a una cassa, in un caveau, nei sotterranei di un palazzo. E’ in attesa di uscire, è nel mondo inaccessibile della fantasia che aspetta di rivelarla alla luce attraverso la creazione. E’ al momento un’idea, ma nuova, una variante, qualcosa che non avete mai visto prima, anche se credevate di aver visto tutto. Perché una rosa è una rosa. 
Ma una ninfea non è mai una ninfea.  

Gabriele Romagnoli


29.4.20

nuovo mondo


riviera t.

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Grossi, colorati e con una specie di ali. 
In una prima elementare di una cittadina cinese pare abbiano trovato una soluzione al problema del distanziamento sociale all’interno delle classi: 
cappelli da un metro appositamente creati per assicurare le “giuste distanze”.

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grazie Monica, questo video è meraviglioso


28.4.20

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riviera t.

Giorgio Agamben

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24.4.20

ippocastano in fiore


riviera t.

i fiori dell'ippocastano
"non li avevo mai guardati"
(piccole cose belle di una quarantena)

oggi, primo pomeriggio

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23.4.20

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riviera t.

ieri

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22.4.20

18.4.20

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16.4.20

CON AMORE


riviera t.

La targa all'ingresso del mio palazzo del cuore

CON AMORE durante gli anni 1971 e 1972 
Mastro Ivano da Medicina ha innalzato questo edificio 
su progetto di Estenio da S. Lazzaro 

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14.4.20

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il guardaroba di Georgia O'Keeffe

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6.4.20

La mela




riviera t.



La Mela - Lucio Dalla

C'ho provato fino all'ultimo
Di scappare con te
Sapendo poi che ero l'unico
Visto che un altro qui intorno non c'è
Ci vediamo sotto l'albero, baby
Quando scocca mezzanotte
Io e te
Tu e me
Anche il pettine
Avevo preso con me
Anche se l'aspetto fisico
Qui nel cielo, nel cielo non c'è
Ma la mela di quell'albero, baby
Non toccarla, non mangiarla
E sai perché?
C'è un serpente
Tienilo lontano da te
Non dir niente
E lascia la mela, la mela dov'è
Ci si sdraia sotto l'albero, baby
Nudi e al fresco della notte
Nudi io e te
Tu e me
Ma tu
(No, tu)
Tu (No, tu)
Così per un morso che hai dato
Tutto il mondo è cambiato
Non ho capito più niente
Ti ho guardato come non ti ho mai guardato
Ed è lì che ho sbagliato
A non far finta di niente
Il cuore non è un brufolo
Puoi schiacciarlo se vuoi
Ma poi rimane il livido
Ed è quello che è successo tra noi
All'improvviso si è stracciato il cielo
Sul pavimento della notte
È sparito il serpente
Siamo soli io e te
Nudi, nati in mezzo a un prato
La foglia più grande la prendo per me
E se trovassimo un montgomery, baby
Per il viaggio di stanotte, per te?
Ma sì, il Paradiso cos'è
Se non ci sei dentro anche te
Non è nemmeno un imbuto
Lo so che ti avevo perduto
Che non mi hai più cercato
Che sono fatto sbagliato
Però, quante stelle nel cielo
Tra le case e i palazzi
C'è perfino la luna
Lo so, sembra proprio una mela
Ma non si torna più indietro

Comunque, buona fortuna





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Dobbiamo disubbidire - Goffredo Parise, a cura di Silvio Perrella, Adelphi edizioni
(scritto nel 1974 ma assolutamente attuale) 

«Questa volta non risponderò ad personam, parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mi hanno aspramente rimproverato due mie frasi: «I poveri hanno sempre ragione», scritta alcuni mesi fa, e quest’altra: «il rimedio è la povertà. Tornare indietro? Sì, tornare indietro», scritta nel mio ultimo articolo.
Per la prima volta hanno scritto che sono “un comunista”, per la seconda alcuni lettori di sinistra mi accusano di fare il gioco dei ricchi e se la prendono con me per il mio odio per i consumi. Dicono che anche le classi meno abbienti hanno il diritto di “consumare”.
Lettori, chiamiamoli così, di destra, usano la seguente logica: senza consumi non c’è produzione, senza produzione disoccupazione e disastro economico. Da una parte e dall’altra, per ragioni demagogiche o pseudo-economiche, tutti sono d’accordo nel dire che il consumo è benessere, e io rispondo loro con il titolo di questo articolo.
Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà.

Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è “comunismo”, come credono i miei rozzi obiettori di destra.

Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime “barche”.
Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.
Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.
Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostra paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.
Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli “etichettati” che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo.

I giovani “comprano” ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.

La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.



Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più “corretta”, come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell’Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l’enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro paese».


3.4.20

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riviera t.

"spero che il mio cerbiatto stia bene"



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